< Pagina:Dopo il divorzio.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.

— 211 —

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Dopo il divorzio.djvu{{padleft:217|3|0]] il capo gli tremava, gli occhi non vedevano più. Isidoro uscì fuori e s’avviò verso la casa del medico. Si sentiva mortificato; ma nonostante il suo buon senso, la sua saviezza, la sua religione, non poteva spiegarsi che male c’era se si cercava di guarire il morso della tarantola coi canti, i suoni, i riti usati dai padri e dagli avi del villaggio sin dal tempo nel quale i giganti vivevano nei Nuraghes.

Per istrada le donnicciuole si erano sbandate, a gruppi di due o tre, e a bassa voce, nell’ombra, commentavano l’accaduto. Chi la prendeva sul serio, chi criticava il prete: una ragazza molto allegra si batteva le mani sulle anche canticchiando ironicamente:


Faladu m’est su tronu,
O mama de ranzolu[1].

Era la nenia che dovevasi cantare intorno al letto del malato, se non sopraggiungeva prete Elias. Alcune donne s’avvicinarono ad Isidoro; ma egli passò oltre, a lunghi passi, pensieroso: allora tutte se ne andarono, ed intorno alla casa della vedova regnò la sera fredda e verdognola. Le stelle parevano occhi d’oro velati di lagrime.

  1. M’è calato un fulmine,
    O madre del ragno.

    Vedasi il fascicolo III, anno I, della Rivista delle tradizioni popolari italiane. Roma, Forzani e C., 1894.
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.