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ERASMO DI ROTERDAMO


al suo


TOMMASO MORO


Salute.


Ritornando ultimamente dall’Italia in Inghilterra, per non ispendere tutto il tempo che dovetti cavalcare in vane fole, ho stimato bene di ricrearmi di tratto in tratto, o col volger l’animo a’ nostri comuni studj, o col richiamarmi alla memoria i dottissimi insieme e dolcissimi amici, che costì lasciato avea nel partire. Tu il primo, o caro Moro, mi ti offerivi tra questi agli occhi, e sebbene tanto lontano, io pur ti vedeva, e teco favellava con quel piacere che godea quando eri presente, e di cui giuro non avere mai avuto in mia vita il maggiore.

Avendo dunque giudicato d’occuparmi in qualche cosa, nè d’altra parte sembrandomi tempo da gravi pensieri, mi avvisai di scherzare alquanto, facendo l’Elogio della Pazzia. Qual Minerva[1], mi dirai, ti ha inspirato un tal pensiero? ecco: Presemi in prima tal fantasia pel tuo gentilizio cognome, il quale è tanto alla Moria[2] vicino, quanto da

  1. Ad imitazione di Omero, il quale introduce Minerva a suggerire a Penelope e ad Ulisse ora una cosa, or un’altra.
  2. Così chiamasi in greco la Pazzia.
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