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DI LUCANO LIB. I. | 15 |
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Soffrir non può maggior, nè ugual Pompeo.
Chi brandì l'armi con ragion più giusta
Saper non lice: se ciascun difende
165Con grandi autor: la causa vincitrice
Piacque agli Dei, ed a Caton la vinta[1]
Ne già scesero uguali al grande arringo:
L'un grave d'anni, e della toga avvezzo
Col lung'uso alla pace ha già dell'armi
170L'arte obbliata, ed avido di fama
Pensa a largir gran doni, ad esser tratto
Dall'aure popolari ai sommi onori,
E del plauso gioir del suo reato;
Nè più gli cal rinovellar le forze.
175L'ombra s'allarga del gran nome e sorge;
Qual alta quercia in un secondo campo
Dei sacri doni e delle spoglie adorna
Del popol vincitor; nè abbarbicata
A profonde radici altera e ferma
180Su'l suo peso si libra, e i nudi rami
Spandendo all'aure coll'immane tronco
Adombra il suolo; ma sebben fra'l denso
Robusto stuol de' fermi pin minacci
Dell'Euro al primo soffio alta rovina,
185Pur si cole ella sola. Ugual non suona
Di Cesare la fama; ma ritroso
È il suo valor di freno, e sol l'arresta
- ↑ Questa sentenza è veramente enfatica, e fa vedere la poca stima, in che ritiene il Poeta gli Dei della sua patria, che mette a confronto di Catone; ma tale era stima di questo Eroe, che il Poeta adoprò una Iperbole per commendarne la virtù.
- ↑ bramava esser piuttosto testa di formica in un piccol paese che coda di leone in Roma.