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DI LUCANO LIB. I 17

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Ed i longhi confin vincon d'assai
L'antica meta. Quindi i facil sdegni,
220I delitti, la forza, il vile obblío
Della Patria e dei dritti han pregio e vanto;
Quindi le leggi, i Plebisciti, e il sacro
Inviolabil Consolar potere
Dei Tribuni si turba; quindi a prezzo
225Mercansi i fasci, e il popolar favore,
E nel campo venal sorgenti ogn'anno
L'aspre contese; quindi il censo ingordo,
E l'usura vorace, e della guerra
L'util desío, e la sbandita fede.
  230Era dalle fredd'Alpi in riva sceso
Del picciol Rubicon Cesare in mente
Già ravvolgendo la futura guerra;
Quando fra l'ombre dell'oscura notte
Chiara apparve al guerrier la grande immago
235Della Patria tremante in mesto aspetto
Il bianco crin dalla torrita fronte
Spandendo all'aure, coll'ignude braccia,
Colla lacera chioma, e sospirando
Sì lo rampogna: ove movete i passi?
240Ove spingete, o miei guerrier, le insegne?
Se con ragion, se cittadin venite,
Questo è il confine. Allor un freddo orrore
Le membra ricercò del fiero Duce,
S'arricciaron le chiome, e fermò l'orme
245Languide e lente fu l'opposta sponda.
Indi si disse: o dal Tarpeo tonante[1]
Della gran Roma Deità custode,

  1. All'uso de' Poeti, e degli Storici si sa parlar Cesare con retoriche figure; ma il fatto fu che in istile laconico disse queste sole parole: il dado è gettato.
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