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Famose, come è noto ne’ tempi antichi, e celebrate furono in ogni parte la cucina di Sicilia, la nostra mensa, e le nostre vivande. Gli stranieri veniano tra noi ad apprender l’arte di condire i cibi, e il nostro Labdaco fu il maestro de’ cucinieri i più rinomati della Grecia [1]: anzi da Sicilia quasi per moda, e a segno di grandezza chiamavano i loro cuochi i personaggi più ricchi tra i Greci, o in grazia degli Ateniesi scrisse Miteco il Cucinier Siciliano [2]. Era così comune e generale il pregio, in cui si tenea la nostra cucina, che i comici, i quali sogliono gli usi motteggiare e i costumi de’ tempi, spesso ricordano le vivande preparate alla maniera di Sicilia, e d’ordinario recano in iscena de’ cuochi siciliani, o in Sicilia ammaestrati. Alessi, fra gli altri, introduce un cuoco, che menando gran vanto, va egli dicendo: «Ho io appreso così bene a cuocere le vivande in Sicilia, che per il piacere farò ai commensali morsicare i tegami ed i piattelli [3].„ Quest’arte venne tra i Siciliani a tanta fama, perchè erano opulenti e pieni di lusso: mangiavano essi due volte al giorno, e sempre a sazietà, |
ricercavan de’ manicaretti, e la varietà amavan de’ cibi [1]; ma come erano coltissimi le arti e le scienze volgeano a loro comodo, e raffinavano col favore di queste gli stessi piaceri della vita. Sibari e Siracusa vivenno forse con eguale mollezza, ma questa, e non quella, facea coll’ingegno e la coltura più lieti i desinari. Panfilio sedendo a mensa non parlava che in versi [2], Carmo adattava alle vivande, non senza grazia, un verso di Omero o di Euripide o d’altro poeta [3], e in Sicilia furono trovati alcuni giocolini, che poteano dopo cena tenere in festa la brigata [4]. Non è dunque da
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