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13 | DI ARCHESTRATO | 14 |
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uno de’ frammenti di Ennio abbiamo nella lingua del Lazio parecchi versi di Archestrato, ne’ quali si fa parola di alcune città marittime, e de’ loro pesci gustosi[1].
Scelta così la qualità de’ cibi, tutta l’innovazione, che portò nel prepararli, si ridusse a levare de’ condimenti. Non reca d’ordinario che la salsa di triti aromi, nè suol far uso che di sale ed olio, di cimino alle volte, e più di ogni altro d’erbette odorose. Però parlando del modo di arrostire la carne di lepre, vuol che soltanto si sparga di sale, e nulla più, anzi riprende colore, che la soleano imbrattare di olio, e cacio, ed altri grassumi, come, dice egli, non senza grazia, Come se a gatti s’imbandisse mensa. E sebbene i cuochi di Sicilia, e quei di Siracusa in particolare portassero allora il vanto per la maniera saporita, con cui apparecchiavano i pesci[2]; pure gli sgrida per l’abbondanza, che adoperavano de’ leccumi. Ma non vi assista, dice egli parlando dell’apparecchio de’ pesci, alcun di Siracusa o d’Italia, Giacchè costoro preparar non sanno E pel condimento dell’aceto reca a generale precetto, che si adoperi solo per que’ pesci, che han carne tosta. Sia ammollito in aceto, dice egli, Qualunque pesce la cui carne è dura, Scelte adunque nella qualità de’ cibi, e semplicità nel condirli furono le due innovazioni che portò Archestrato nella cucina, e queste furono ben accolte da’ più rinomati cuochi della Grecia, e passarono nelle mense de’ Grandi. Sofone e Damosseno, uno di Acarnania, e l’altro di Rodi, furono scolari del nostro Labdaco che avea già adottato i precetti di Archestrato, ed ambidue rigettarono gl’imbratti di cacio, di silfio, di coriandro, e d’altri simili antichissimi condimenti, che erano |
in uso, come essi dicono presso il comico Antippo, nell’età di Saturno[1]. Il cuoco vantatore presso il comico Sotade[2], si fa pregio d’apparecchiare il pesce amia alla maniera di Archestrato, il quale con poco rigamo, e involto in foglie di fico, vuole che semplicemente si cuocesse sotto il cener caldo. Anzi fra i comici sempre quasi troviamo, che i cucinieri da loro in iscena recati non in altro modo vantano la loro virtù, e l’arte loro, che preparando le vivande giusta i precetti d’Archestrato. E se Dionisio il comico introduce un cuoco, che per millanteria disprezza Archestrato, ed i suoi insegnamenti, ciò fece perchè vieppiù risaltasse il carattere baldanzoso, che sulla scena gli dava[3]. Parea che sprezzando il solo Archestrato avea già disprezzato tutti gli altri maestri della cucina: tanto sonava chiara la fama del suo poema e de’ suoi insegnamenti.
Un’altra innovazione portò il nostro poeta alla seconda cena, che direbbesi ora dessert. Nelle vivande aveva egli tolto le imbratterie, e gli untumi, e qui seguendo gl’istessi principj in quanto al condimento, vi aggiunse inoltre degli altri cibi, e ne rese più solido e più gustoso il servito. Beveano, egli è vero, i Siracusani al dessert, ma se la passavano a rosicchiar fave, ceci, e fichi secchi; Archestrato gridò contro un sì fatto costume e v’introdusse ventre e vulva di scrofa, e augelletti fatti arrosto. Nè questi, dice egli, Nè questi abitator di Siracusa Ma sia che parli delle diverse qualità dei cibi o del diverso loro condimento, sia che venga al dessert, sparge sempre il poema di scherzi e d’ilarità. Parla egli delle vivande in modo, che par gli venga l’acquolina a’ denti; ma non è perciò da crederlo come tanti han fatto per un puro e semplice ghiottone, e nulla di più. Dovea per sollecitare i lettori abbellire il suo poema con venustà, e farla ancor egli da ghiotto per invogliar l’appetito in qualunque più ne fosse stato svogliato. Chi vorrà tassare d’ubbriachezza il Redi, e il nostro Meli, perchè ne’ lor ditirambi parlano e scrivono da be- |