Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
15 | NOTIZIE SULLA VITA DI ARCHESTRATO | 16 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Gastronomia.djvu{{padleft:8|3|0]]
voni? È la natura del soggetto, che lo vuole; anzi tanto più riescon leggiadri e questi, ed Archestrato, quanto più gli uni sanno la lingua imitare e i modi de’ bevitori, e l’altro quelli de’ leccardi: il tutto sta a farlo con eleganza. Ma in ciò al pari del Redi e del Meli ha riportato Archestrato laude e pregio di elegante e festevol poeta. Io non parlo già di quelle storiette che da qualche scrittore[1] si narrano, e per poeta ce lo danno a vedere; tenuto a’ suoi tempi di grido e di leggiadrìa, parlo bensì de’ frammenti, che ci restan di lui, i quali chiaro ne mostrano il suo valore nella poetica. La disposizione de’ suoi versi, la frase, la maniera degli epiteti, le parole, l’armonia, sono tutte Omeriche; Omero aveva egli studiato, d’Omero avea fatto tesoro, e lui ritrae in tutti i suoi versi. Ingegnoso, ardito bizzarro trasporta, e sempre con grazia e venustà, a’ cibi e alle vivande quelle voci vaghissime colle quali il greco idioma solea esprimere la bellezza e le cose belle. Di modo che Archestrato fanno spirito ornato e gentile, che per coglier vanto di leggiadria un argomento scelse bizzarro e piacevole. Nel tempo in cui in Sicilia abbondavano e gli storici ed i filosofi e più d’ogni altro i poeti, che per porger sollazzo si occupavano di vaghi soggetti, e sin anco di parodie, dovette Archestrato venire in gran fama, e grande onore acquistarsi recando in belli e puliti versi le leggi e il codice della cucina. Da questo poema ritraevano gli abitatori della bella Siracusa, che era piena di opulenza e di commercio, in qual parte della terra erano alcuni cibi più squisiti, e
|
ne ornavano le loro mense. I versi di Archestrato si doveano spesso ricordare ne’ banchetti, e nei conviti alla vista delle vivande, e i cucinieri ed il popolo li doveano in varie occasioni recitare, però gli scrittori ne fecero di continuo menzione, e la sua fama e i suoi frammenti sono pervenuti sino a noi.
Che bei tempi eran questi per la nostra Sicilia? Ricca, elegante, fioritissima di arti e di scienze, impresso mostrava il bello eziandio nelle monete, ne’ vasi, nelle lucerne, e il suo buon gusto nelle stoviglie e nella cucina. Mentre rinomata era ella per li suoi cuochi[1], per le vesti vajate, per li letti e per li guanciali[2], lodati erano i suoi caci, ricercate le sue colombe[3], pregiati gli interiori de’ tonni pescati in Pachino[4], in onore i suoi cuochi, Archestrato la rendeva più ornata pe’ nuovi raffinamenti che portava alle mense e al cucinare, e per i bei leggiadri modi con cui esprimeva i cibi, e l’arte di condirli con sapore. Ma resteremo noi nello stato di quelle illustri famiglie, che decadute a vile fortuna si confortano della miseria colla vita degli antichi diplomi, che fondano i titoli della loro nobiltà? Sono da emularsi non che da celebrarsi i tempi della nostra grandezza. Sono da studiare i resti onorati de’ nostri sommi uomini, e gli avanzi preziosi delle nostre antichità per acquistare il sentimento quanto più pregevole, tanto men comune, il sentimento del bello, che distingue ed onora le colte e polite nazioni.
|