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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Gazzetta Musicale di Milano, 1842.djvu{{padleft:16|3|0]]del marito importante sono alla fin lacerate; e questi dichiara fieramente alla porta del teatro, che sua moglie, non potendo più sopportare delle insolenze, ritirasi dalla scena e che l’universo si accomoderà quind’innanzi come potrà meglio.
La cantante non è più cantante; tutt’al più ella può promettere a sé medesima di farsi ammirare ancora dai curiosi in qualche pia beneficiata. Finché giungano intanto questi rari momenti d'illusione, è pur duopo far qualche cosa, diventar possidenti, farsi inscrivere nelle tavole censuarie, dar capitali a mutuo. Il marito della prima donna è creato allora d'un colpo, non solo marito di ricca proprietaria di beni, ma proprietario egli stesso. Siffatto istante, ch'esso ha temuto tanto, gli procaccia un’esistenza ed una considerazione indipendenti da quelle di sua moglie. Egli abbandonasi allora esclusivamente alla felicità di dire e di ripetere: la mia casa in contrada tale, i miei capitali, i miei beni, ecc. Nella sua casa, in mezzo alle sue ricchezze e a’ suoi beni, egli però si tien sulle spine, ed ama le società, i bigliardi pubblici, le botteghe da caffè, dove tuona, esclama, si pavoneggia da mattina a sera, narrando a chi va ed a chi viene i trionfi europei di sua moglie.
CRITICA MELODRAMMATICA.
Osservazioni alla MARIA PADILLA,
Opera del maestro Donizetti.
(Continuazione) [1]
La scena tra Maria ed Ines, sebbene sia essa nulla più che uno scambio di affettuose confidenze e di conforti, è svolta non senza garbo dal poeta, il quale ha pur saputo mascherare alla bell’e meglio lo sforzo fatto nell'estenderla molto al di là del bisogno, e in guisa che il maestro avesse materia di lavorarvi intorno un duetto in tutta forma tra le due donne; e guai se si fosse mancato a questo servile omaggio alla consuetudine! guai se l’autor del dramma, non consigliato che dalla stretta economia dell'azione, limitava l’esposizione del punto scenico al solo necessario, ed evitava quindi quel troppo rapido e forzato passaggio che dallo sconforto e dal timore della collera del padre, cui ben a ragione è in preda la colpevole Maria, ella fa quasi d’un tratto alla speranza e al ridente pensiero di un perdono pur troppo incerto! Al maestro mancava il pretesto di regalarci quel grazioso ricamo di frasi che con veramente piacevole gusto egli intessè a due voci per terza su due intere strofette; passo bellissimo quanto all’effetto musicale, ma difettoso in parte nella sua applicazione e quindi mancante di giusto carattere. Spieghiamoci meglio. Anche ove si voglia concedere che Maria possa darsi ragionevolmente in braccio alla speranza di essere perdonata dal padre furente contro di lei, ella colpevole e per proprio conto interessata nella cosa, deve esprimere questo suo sentimento in modo in gran parte diverso da quello con cui al sentimento stesso vien prendendo parte la sorella, innocente e non mossa che da simpatia d’affetto e bontà d’animo. Ora, a nostro credere, queste due non conformi situazioni morali di due animi con vario grado d’intensità agitati non ponno manifestarsi con una sola e quasi identica foggia di frasi musicali, ma vorrebbesi notare alcun che di più patetico e penetrante in quelle di Maria e di tratto in tratto anche udirle tramezzate da accenti che tradissero per lampi il dubbio e l’apprensione naturali in lei, cui la sorella solo un momento prima riferì che il padre stava per maledirla, in lei dal cui cuore non può a buon dritto effondersi con tanto soave fiducia il pensiero delle pure gioje e l’immagine dell’iride di pace ec. [2]. L’arte di ideare un passo di carattere a due voci, che, senza mancar di unità di pensiero, si prestasse alla doppia espressione ora accennata, non poteva mancar di certo all’immaginoso Donizetti, il quale avrebbe anche saputo congegnarlo in modo che le due diverse locuzioni ora intrecciandosi, or confondendosi, or divincolandosi producessero un tutto, pieno di verità poetica, di soavità di melodia e novità di forma.
Poco men che perfetta giudicheremo noi pure insieme col pubblico l’esecuzione di questa assai leggiadra stretta, nella quale il diverso timbro delle due voci femminili, l’uno argentino e vibrato, l’altro più molle ed omogeneo, si sposano con felice impasto, sicché l’effetto è proprio tutto quel gradevole che immaginar si vuole. Vero è bene che non tutte le sere le due valenti attrici la cantano colla medesima precisione e finitezza d’accordo; ma ciò deve perdonarsi a cagione delle molte difficoltà, direi meccaniche, ond’è sparsa quella specie di scherzo che con ingegnoso giro di modulazioni e bella gara di gorgheggi va a finire in una cadenza piena di vezzi che in fatto rapisce gli applausi e manda contenti anche que’ critici i quali al par di noi fossero disposti a notare le incongruenze di espressione drammatica più sopra accennate.
Uscite le due donne, la scena rimane vuota per la seconda volta in un solo (!) atto ed entra quindi il re Don Pedro circondato dalla sua corte e tutto pomposo della sua sovrana maestà. Senza che persona lo annunzi, si inoltra con passo ardito nella regia sala e baldanzoso e quasi insolente nel contegno attraversa la folla de' cortigiani un vecchio sconosciuto; Don Ruiz di Padilla, il padre di Maria che da lungo tempo esule dal regno nessuno più riconosce (!). Ei vuol vedere il re; e questi tutto compiacente e per nulla piccato dell’ardimento dell’ignoto signore non si cura punto di domandargli chi sia egli (ufficio al quale, a quanto ne sembra, avrebbe dovuto pensare prima di tutti il guardaportone del palazzo!); ma si accontenta di dirgli: „a voi; vedetemi, son io, che cosa bramate?”
A che in me così il guardo fissate?
Ma lo sconosciuto non si cura di rispondere a codeste interrogazioni del monarca forse troppo benigne. Con fiera ironia [3] non abbastanza espressa dal sig. Donzelli, ei lo investe e per poco non si prende scherno di lui, il quale non comanda già (come parrebbe) che lo si cacci dal suo augusto cospetto, ma con esempio di singolare pazienza in un suo pari scende a giustificarsi dei brutti propositi a lui lanciati. E il vecchio prende quindi più coraggio e si fa a dirgli in viso niente meno che vile, infame!.. E il buon don Pedro se la beve poco men che in pace; e quell’altro tira innanzi a beffarsi di lui, de’ cortigiani, delle due schiere di soldati sfilati nel fondo della sala, di quanti in somma il circondano con un contegno di prudenza e di rassegnazione che in verità é difficile trovar naturale in simil caso. E nondimeno fummo costretti ad ammirare gli sforzi del maestro il quale, con un recitativo sufficientemente animato, e frammisto qui e qua di buone frasi cantate, seppe dar un po' di vita musicale a questa scena tanto inconveniente-mente ideata e basata tutta sul falso. - Al poeta però può e deve essere scusa indispensabile l’obbligo di prestar tema ad un duetto tra il basso e il tenore! Ed eccoci quindi a dar sempre di cozzo nel solito scoglio di quelle benedette regole librettesche che sono la vera peste della ragion drammatica, e per naturai conseguenza, anche della giusta poesia musicale.
Al fine il vecchio spagnuolo, che più non sa contenersi, passa ogni misura e getta nient'altro che un guanto in viso a don Pedro. Oh adesso poi o d’un modo o del1 altro bisognerà pur prendersela calda! E cosi avviene in fatto; e l’ultimo sfogo del furore prorompe in otto ottonarli, destinati né più né meno all’ultimo tempo ossia alla stretta del duetto. - Un’altra osservazione ne sia permessa nel proposito appunto di questa stretta. Il senso de’ versi prestati dal poeta al vecchio padre di Maria è al tulio opposto di quello degli altri ch’egli ebbe a porre sulle labbra di don Pedro, e per verità cosi doveva essere; ché nel punto drammatico in quistione lo stato dell'animo di un vecchio proscritto cui bastò il cuore di rimprocciar fieramente de’ suoi torti il potente seduttor di una sua figlia colpevole, debb’essere ben diverso da quello del monarca insultato. Gli affetti bollenti nel cuore di persona cui alle già patite vergogne sta per sovrapporsi l’infamia delle battiture, debbono, a nostro dire, disfogarsi in modo forse opposto a quello col quale si esprimerà lo sdegno, la divampante ira di un re che fu villanamente provocato da ignota mano nel mezzo della sua corte. E nondimeno il ch. signor Donizetti trovò conveniente tessere la stretta del duetto di cui parliamo con un solo ed unico giro di frasi, a perfetto accordo di terza, tra don Pedro e don Ruiz! i medesimi impeti di voce, le medesime accentazioni alle cadenze dei periodi; in somma lo stesso stessissimo andamento melodico! Ameremmo essere convinti o dallo stesso signor Donizetti o da altri per lui dell’erroneità e insussistenza di questa nostra critica, e non ne spiacerebbe di certo dover essere costretti a convenire che il modo adottato dall’illustre maestro a servire alla verità dell’espression morale del punto scenico in quistione era né più né meno il solo acconcio e plausibile. Ma temiamo dal contrario.
Ora eccoci finalmente ad uno dei pezzi più elaborati dello spartito, alla grande scena che chiude la seconda parte nella quale la peripezia del dramma è recata al maggior punto di interesse e ne prepara non senza artifizio la catastrofe finale. Trascinato il vecchio Ruiz fuor della sala e condotto alle battiture, ecco sopraggiugnere Maria la quale, di cuor dolce com’è. domanda grazia per l’infelice. Il re se ne scusa alla bella e meglio col dire che gli è ignoto chi siasi colui che osò venire ad insultarlo. Ma qui si fa innanzi il duca Ramiro, e senza tanti riguardi narra alla Padilla essere appunto il di lei medesimo padre quel disgraziato, e accenna senz’altro che lo traggono a infame supplizio. E agevole immaginare le diverse violenti emozioni
che provano tutti i personaggi pre-