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406 ATTO TERZO

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Pantalone. Bravo. I ho persi tutti.

Silvio. Volete altro?

Pantalone. Va cinque a vinti zecchini.

Silvio. Danaro in tavola.

Pantalone. La taglia, son galantomo.

Silvio. Sulla parola non giuoco. (si alza, e ripone il denaro)

Clarice. Signor Pantalone, per farmi il vestito di broccato, vi vorrebbero altri venti zecchini.

Pantalone. La se li fazza dar dal sior Silvio.

Clarice. Vergogna! Perdere il danaro così miseramente e mancar di parola a una donna!

Pantalone. La doveva far de manco de menarme in casa sto sior.

Silvio. I pari miei vi onorano, quando vengono dove voi siete.

Pantalone. Coss’è sti pari miei? Se sa chi se, sior conte postizzo.

Silvio. Se non avrete giudizio, vi taglierò la faccia.

Pantalone. A mi, sior conte cànola[1]? Sior baro da carte?

Silvio. Come parli, temerario?

Pantalone. Sì, quei bezzi me li ave barai.

Silvio. Eh corpo di bacco! (mette mano alla spada)

Pantalone. Sta in drio. (mette mano ad un pugnale)

Clarice. Aiuto.

SCENA VIII.

Marcone e detti.

Marcone. Che cos’è? Cos’è stato?

Pantalone. In casa mia se fa de ste azion?

Clarice. In questi imbarazzi io non ci voglio più essere. In casa mia non ci venite mai più. (a Pantalone, e parte)

Silvio. Ci troveremo in altro luogo. (parte)

  1. Cannella della botte e anche zipolo. Per ischerzo o per disprezzo: sior abate canola. V. Boerio.
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