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482 ATTO TERZO

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Brighella. Perchè son un asino?

Arlecchino. Perchè quando i galantomeni magna, no i se descomoda.

Brighella. A st’ora ti magni?

Arlecchino. Mi no so de ore. Me regolo col relojo dell’appetito.

Brighella. Orsù, bisogna dar una man[1] portar i taolini, le careghe; far quel che bisogna.

Arlecchino. Mi, con to bona grazia, no vôi far gnente.

Brighella. Perchè no vustu far gnente?

Arlecchino. Perchè no ghe n’ho voja.

Brighella. Eh, te la farò vegnir mi la voja. Anemo, digo, presto a laorar.

Arlecchino. Brighella, abbi giudizio; no me perder el respetto.

Brighella. La perdona, zentilomo, un’altra volta farò el mio dover. Trui, va là[lower-alpha 1].

Arlecchino. A mi trui, va là? A mi? Sangue de mi. (mette mano al suo legno)

Brighella. Olà, olà, le man a casa, che te pesto co fa el baccalà[2]. (s’attaccano)

SCENA III.

Rosaura e detti.

Rosaura. Elà, elà, fermate.

Brighella. In grazia de Rosaura me fermo.

Arlecchino. Ti la poi ringraziar ela, da resto...

Rosaura. E non vi vergognate? Voi altri, che essendo servitori in una medesima casa, dovete amarvi come fratelli?

Brighella. L’è vero, disi ben. Ma colù nol gh’ha gnente de giudizio.

Arlecchino. L’è lu che l’è un ignorante.

  1. Espressione di beffa, di disprezzo; voce con cui si eccitano i cavallacci a marciare.
  1. Bettin. e Paper.: dopo man, due punti: e dopo careghe, punto fermo.
  2. Segue nelle edd. Bettin. e Paper.: «Arl. No te posso ne veder, ne sopportar, galiotto maledetto. Brigh. Eh, battocchio da forca, adesso mi. (S’attaccano in questo)».
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