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622 ATTO TERZO

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Clarice. Di te.

Truffaldino. Ergo Smeraldina l’è mia.

Florindo. Signora Beatrice, il vostro servitore dov’è?

Beatrice. Eccolo qui. Non è Truffaldino?

Florindo. Truffaldino? Questi è il mio servitore.

Beatrice. Il vostro non è Pasquale?

Florindo. Pasquale? Doveva essere il vostro.

Beatrice. Come va la faccenda? (verso Truffaldino)

Truffaldino. (Con lazzi muti domanda scusa).

Florindo. Ah briccone!

Beatrice. Ah galeotto!

Florindo. Tu hai servito due padroni nel medesimo tempo?

Truffaldino. Sior sì, mi ho fatto sta bravura. Son intra in sto impegno senza pensarghe; m’ho volesto provar. Ho durà poco, è vero, ma almanco ho la gloria che nissun m’aveva ancora scoverto, se da per mi no me descovriva per l’amor de quella ragazza. Ho fatto una gran fadiga, ho fatto anca dei mancamenti, ma spero che, per rason della stravaganza, tutti sti siori me perdonerà[1].

Fine della Commedia.

  1. Segue nelle edizioni anteriori alla Pasquali: «... E se no i me vol perdonar per amor, i me perdonerà per forza. Perchè ghe farò veder, che son anca poeta, e qua all’improviso ghe farò un
    SONETTO.

    Do Patroni servir l’è un bell’impegno,
    E pur, per gloria mia, l’ho superà;
    E in mezzo alle mazor dificoltà,
    M’ho cava con destrezza e con inzegno.

    Secondando la sorte el mio desegno,
    M’ha fatto comparir de qua e de là;
    E averia sta cuccagna seguità,
    Se per amor mi no passava el segno.

    Tutto de far i omeni xe boni;
    Ma con amor l’inzegno no val gnente,
    E i più bravi i diventa i più poltroni.

    Per causa de Cupido impertinente,
    No son più Servitor de do Patroni,
    Ma sarò servitor de chi me sente.»

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