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176 ATTO TERZO

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Tonino. Sì ben, l’è questa. (Fatta far da mio pare, quando che l’ha abù i do zemelli). (da sè)

Dottore. Già che il tutto è scoperto, confesso Rosaura non esser mia figlia, ma essere una bambina incognita, trovata da un pellegrino alle basse di Caldier, fra Vicenza e Verona. Mi disse il pellegrino essere rimasta in terra, sola e abbandonata colà ancora in fasce, dopo che i masnadieri avevano svaligiati ed uccisi quelli che in cocchio la custodivano. Io lo pregai di lasciarmela, ei mi compiacque, e come mia propria figlia me l’ho sinora allevata.

Tonino. Questa xe Flaminia mia sorella; andando da Venezia a Val Brambana[1] in Bergamasca la mia povera mare, per desiderio de veder Zanetto so fio, e con anemo de lassar sta putela a Stefanello mio barba, i xe stai assaltai alle basse de Caldier, dove l’istessa mia mare e tutti della so compagnia xe stai sassinai, e ella, in grazia dell’età tenera, bisogna che i l’abbia lassada in vita.

Rosaura. Ora intendo l’amore che aveva per voi. Era effetto del sangue. (a Tonino)

Tonino. E per l’istessa rason anca mi ve voleva ben.

Beatrice. Manco male che Tonino non può sposare la signora Rosaura.

Florindo. (Ora ho perduta ogni speranza sopra la signora Beatrice). (da sè)

Tonino. Adesso intendo l’equivoco della scrittura e delle finezze che m’ave fatto. (a Rosaura) E mi aveva tolto in sinistro concetto el povero sior Dottor. (al Dottore)

Dottore. Ah, voi m’avete rovinato!

Tonino. Mo perchè?

Dottore. Sappiate che da un mio fratello mi fu lasciata una pingue eredità di trenta mila ducati, in qualità di commissario e tutore di una bambina, chiamata Rosaura, unico frutto del mio matrimonio. La bambina è morta, ed io perdeva l’eredità, poichè

  1. Vedi nota, a pag. 162.
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