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350 ATTO SECONDO

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Brighella. La senta, se no la gh’ha tutti i denari, no importa; m’impegno de farghe dar la roba, parte col denaro contante e parte con un biglietto.

Anselmo. Oh il cielo volesse! Caro Brighella, sarebbe la mia fortuna. Quanto denaro credi tu che vi vorrà alla mano?

Brighella. Almanco do[1] mille scudi.

Anselmo. Io non ne ho altri che mille cinquecento, gli altri li ho spesi tutti.

Brighella. Vederò che el se contenta de questi.

Anselmo. Brighella mio, non bisogna perder tempo; va subito a serrar il contratto.

Brighella. Bisognerà darghe la caparra.

Anselmo. Sì, tieni questi venti zecchini. Daglieli per capana.

Brighella. Vado subito.

Anselmo. Ma avverti di farti dare l’inventario, riscontra cosa per cosa, poi viemmi ad avvisare, che verrò a vedere ancor io.

Brighella. Vado, perchè, se se perde tempo, el negozio poi andar in qualch’altra man.

Anselmo. No, per amor del cielo. Mi appiccherei dalla disperazione.

Brighella. (E vero che el signor Capitanio vol vender la galleria, ma con questi venti zecchini comprerò i so scarti, ghe portare qualch’altra freddura, e el gonzo che non sa gnente, li pagherà a caro prezzo). (da sè, parte)

SCENA X.

Il conte Anselmo, poi Pantalone.

Anselmo. Non mi sarei mai creduto un incontro simile. Ma la fortuna capita, quando men si crede.

Pantalone. Se puoi vegnir? (di dentro)

Anselmo. Ecco qui quel buon uomo di Pantalone. Non sa niente, non sa niente. Venite, venite, signor Pantalone.

Pantalone. Fazzo reverenza al sior Conte.

  1. Le edd. del Settecento: due.
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