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L'AVVOCATO VENEZIANO 457

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Servitore. Sarà servita. (parte e chiude la porta)

Alberto. Cossa voi dir sto negozio? Xe otto dì che son qua in sta casa, non ho mai visto ste do signore vegnir a far visita a siora Flaminia, benchè la sia stada tutto sto tempo in letto ammalada. Le vien stamattina dopo la conversazion de giersera, le me fa chiamar, le me vol parlar? Qua ghe xe qualche mistero. Siora Rosaura s’è accorta che gh’ho per ela qualche inclinazion, e la vien fursi a tentarme colla speranza de trionfar della mia costanza. Ma la s’inganna, se la crede de orbarme colla so bellezza. So per altro che in te le battaglie amorose se venze più facilmente fuggendo che combattendo, onde fuggo l’occasion de vederla, per assicurarme della vittoria. Tornemo a nu. Se la donazion fusse fatta dei soli beni acquistadi dal donator, se podaria disputar se de quelli el podeva o nol podeva disponer...

SCENA VI.

Beatrice di dentro batte alla porta della carriera, e detto.

Alberto. Chi è là?

Beatrice. Favorisce, signor Alberto? (da dentro)

Alberto. Oh maledetto el diavolo! Le xe qua.

Beatrice. Si contenta ch’io la riverisca per un momento? (come sopra)

Alberto. Padrona, son a servirla. La xe siora Beatrice; quell’altra, come putta[1], poi esser che no l’ardissa vegnir. Con questa posso liberamente parlar. (apre)

SCENA VII.

Beatrice, Rosaura e detto; poi il Servitore.

Beatrice. È molto circospetto il signor Alberto.

Alberto. La perdoni, giera drio a certe carte. (Xe qua anca st’altra. Oh poveretto mi!) (da sè)

  1. Putta, fanciulla. [nota originale]
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