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500 ATTO TERZO

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SCENA X.

Lelio, Florindo e detti.

Lelio. Con permissione della signora Beatrice. Amico, vi abbiamo ricercato da per tutto, e non vi abbiamo trovato; abbiamo saputo che eravate qui, e ci siamo presi la libertà di qui venire per abbracciarvi, e consolarci con voi della eroica azione che avete fatta. (ad Alberto)

Alberto. Cossa disela, sior Florindo? Hala più zelosia de vederme vicin alla so avversaria?

Florindo. No, caro sior Alberto; anzi vi chiedo scusa de’ miei troppo ingiusti sospetti. Voi siete il più illibato, il più prudente, il più saggio uomo del mondo; da voi riconosco la mia vittoria; molto dovrei fare per ricompensare le vostre virtuose fatiche; ma vi prego per ora degnarvi di accettare per una caparra delle mie obbligazioni questi cinquanta zecchini, che vi offerisco. (gli presenta una borsa)

Alberto. Sior Florindo amatissimo, no è per superbia, ne per avarizia, che ricusa la generosa offerta che la me fa; perchè l’omo, de qualunque profession el sia, nol s’ha da vergognar de ricever el premio delle so fadighe, e riguardo al mio merito, cinquanta zecchini i xe anca troppi; la prego però de despensarme dall’accettarli, e permetterme che li ricusa, senza offenderla e senza disgustarla. La rason, perchè no li accetto, xe ragionevole e giusta. La mia disputa, per un ponto d’onor, ha ridotto in miseria la povera signora[1] Rosaura, e no vôi che se creda che abbia sacrificà alla mercede l’amor che aveva per ela[2].

Florindo. Sentimenti eroici e sublimi, degni d’un uomo del vostro merito e della vostra virtù.

Alberto. La diga d’un avvocato onorato.

Florindo. Ma vi prego a non lasciarmi col rossore di vedermi ingrato e sconoscente con voi.

  1. Così tutte le edizioni.
  2. Bett. e Pap.: e no vôi che se diga che abbia accettà la ricompensa dell’onorata mia crudeltà.
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