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SCENA X[1]

Colombina e detta.

Colombina. Eccellenza, or ora il signor Conte verrà.

Luigia. Benissimo, non occorr’altro.

Colombina. (I miei fiori! Oh poveri i miei fiori!) (vedendoli in terra)

Luigia. Tira avanti due sedie.

Colombina. La servo. (nel metter l’ultima sedia, s’abbassa per prenderli)

Luigia. Lascia lì.

Colombina. (Col piede della sedia li pesta rabbiosamente.)

Luigia. Che cosa fai?

Colombina. Questa sedia non vuole star ritta. (come sopra)

Luigia. Eh rabbiosetta, veh!

Colombina. (Possano diventar tanti diavoli, che le saltino per il guardinfante). (da sè, parte)

Luigia. Non so se don Sigismondo avrà ancora parlato col Conte, a tenore del mio discorso. Basta, mi conterrò diversamente con lui, e s’egli ha della soggezione a dichiararsi per me, gli farò coraggio. Eccolo che viene.

SCENA XI.

Il Conte Ercole e detta.

Conte. Faccio umilissima riverenza alla signora Governatrice.

Luigia. Serva, signor Conte.

Conte. Avete riposato bene, signora, la scorsa notte?

Luigia. Un poco inquieta.

Conte. Che vuol dire? Avete qualche cosa che vi disturba?

Luigia. Da tre mesi in qua non trovo più la mia solita pace.

Conte. Tre mesi son per l’appunto, ch’io sono ospite in vostra casa. Non vorrei che la vostra inquietezza provenisse per mia cagione[2].

Luigia. Conte, accomodatevi.

  1. Sc. VIII nell’ed. Bett.
  2. Bett.: da me.
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