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258 ATTO SECONDO

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SCENA XIV.

Brighella e detti.

Brighella. (Oh caro, oh bello!) Co la comanda, è in tavola.

Florindo. Dove siete stato sinora? Che siate maledetto!

Brighella. In caneva[1], a tor i fiaschi.

Florindo. Per causa vostra ho perduto i denari.

Brighella. Anca adesso per causa mia?

Florindo. Sì, per causa vostra non ho potuto aver carte; ho giuocato con queste, e qualche diavolo hanno dentro.

Tiburzio. Come? Che dite? Sono carte onorate. Io sono un galantuomo, e mi maraviglio di voi. (si scosta dal tavoliere)

Florindo. Compatitemi: non ho detto per offendervi. Dico che io sono sfortunato. Venite qua, un altro taglio.

Tiburzio. Non voglio giuocar altro.

Florindo. Dieci zecchini soli. (Voglio vedere se posso vincere il pranzo). (da sè)

Brighella. La zuppa se giazza; la roba va de mal.

Florindo. Ecco qui dieci soli zecchini. (Brighella, ora taglio per voi). (piano a Brighella)

Brighella. (Prego el ciel che la vaga ben). (da sè)

Florindo. Animo, da bravi.

Lelio. Fante, alla banca.

Tiburzio. Tre e sette, alla prima che viene.

Florindo. Mi pareva impossibile che non v’entrasse il sette. (taglia) Eccolo quel maledetto sette; eccolo quel sette di casa del diavolo. Sette cancheri, che mi mangino il cuore; sette forche, che mi appicchino; sette diavoli, che mi strascinino all’inferno.

Lelio. Via, quietatevi; andiamo a pranzo.

Florindo. Andate, che ora vengo.

Tiburzio. Fatemi la strada. (a Florindo)

Florindo. Andate, che vengo.

  1. Cantina.
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