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Ottavio. Siete un’impertinente.

Corallina. Dasseno? No me cognosso miga, sala. Ho gusto che la me l’abbia dito, che da qua avanti me saverò regolar.

Ottavio. Colle persone della mia condizione si parla con rispetto.

Corallina. Caspita! Eccome!

Ottavio. Finalmente son chi sono.

Corallina. Finalmente el xe.

Ottavio. Cosa sono?

Corallina. Quel ch’el xe.

Ottavio. Che vuol dire?

Corallina. Eh, m’intendo mi co digo torta.

Ottavio. Non vorrei che vi prendeste spasso di me.

Corallina. Oh, la me compatissa. So el mio dover. Lustrissimo, me raccomando alla so protezion.

Ottavio. Dove posso, comandatemi.

Corallina. Grazie alla bontà de vussustrissima, la lassa che ghe basa la man.

Ottavio. Eh, no no...

Corallina. Cara ella... (gli bacia la mano)

Ottavio. Via brava, portatevi bene, e se non trovate il vostro conto a stare con Pantalone, verrete a stare con me.

Corallina. Oh magari, quando vorla che vegna?

Ottavio. Non voglio far mal’opera con questo buon uomo; ma occorrendo... Basta, sapete dov’è il palazzo. Addio. (via)

Corallina. El so dove el xe quel nio de zeleghe[1]. El xe un palazzo che casca a tocchi. Bandiera vecchia a onor de capitanio. Oh, che caro sior Ottavio. In casa soa se sguazza co piove. I coppi xe rotti, i muri xe sfesi. I balconi no i gh’ha nè scuri, nè veri. Sì ben, anderò a star con elo, e tutti do anderemo a star con qualchedun altro. E con tutto che el xe al giazzo, el gh’ha un boccon de spuzza, che la se sente tre mia lontan. Poverazzo, el me fa peccà. Ma voggio andar a veder se el patron xe levà. Sto vecchietto me lo vôi coltivar. Me par ch’el me varda de bon occhio. Chi sa che col tempo

  1. Passere: v. Boerio.
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