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374 | ATTO SECONDO |
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SCENA VIII.
Camera di Ottavio. Letto disfatto, tavola piccola apparecchiata[1].
Ottavio sulla poltrona presso la tavola, che beve, ed Arlecchino.
Arlecchino. Sior padron, elo contento che desparecchia?
Ottavio. Eh, vi è tempo, sparecchierai.
Arlecchino. Le son tre ore in ponto, che V. S. la xe a tavola.
Ottavio. A tavola non s’invecchia.
Arlecchino. Vólela intanto che ghe fazza el letto?
Ottavio. Or ora voglio andare a riposare un poco. Lo farai questa sera.
Arlecchino. Per mi manco fadiga, e più sanità.
Ottavio. Sì, dici bene, meno che si fatica, si sta più sani.
Arlecchino. Ma no vorria che i disesse, che son un poltron che no vol far gnente.
Ottavio. A me basta che tu abbadi in cucina, che aiuti al cuoco acciò la mattina si sbrighi presto, che sii attento a portarmi la zuppa al letto, ad apparecchiar la tavola, a far camminare la mia poltrona; queste sono cose che mi premono, alle quali voglio che tu abbadi con attenzione, con diligenza. Mi hai capito? (beve)
Arlecchino. Sior sì, ho capido.[2]
Ottavio. Oh, non voglio bever altro.
Arlecchino. Vólela che porta via?
Ottavio. No, lascia lì, spingi avanti questa poltrona.
Arlecchino. (Ho anca da menar la carriola). (da sè; fa correr avanti la poltrona)
Ottavio. Oh, così un poco di moto fa bene! Vammi a prender la mia pipa.
Arlecchino. Sior sì. L’aspetta che desparecchia.