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IL FEUDATARIO 21

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Nardo. Dove lasciate Giannina mia figlia, che insegna al notaro il levante, il ponente e il mezzogiorno?

Mengone. Anche Olivetta mia figlia si farebbe onore. Sa leggere e scrivere; ha una memoria che fa strasecolare.

Marcone. Ma ascoltatemi. Vi è il signor Pantalone, e vi è la signora Rosaura, che san di lettera; non potrebbero essi[1] far per noi le nostre parti col signor Marchesino e colla signora Marchesa?

Nardo. Chi? Pantalone?

Cecco. Un forestiere?

Mengone. Perchè ha più denari di noi, sarà più civile, sarà più virtuoso?

Nardo. I denari come li ha fatti?

Cecco. Sono tanti anni che dà un tanto l’anno al Marchese, ed esso riscuote tutto: e avanza, e si fa ricco.

Mengone. Anche noi ci faremmo ricchi in questa maniera.

Pasqualotto. Un forestiere mangia quello che dovremmo mangiar noi.

Marcone. La signora Rosaura per altro è nostra paesana.

Nardo. Sì, è vero, ma ha delle ideacce in testa d’essere una signora, e pare che non si degni delle nostre donne.

Marcone. Veramente è nata di sangue nobile, e dovrebbe esser ella l’erede di questo Marchesato.

Cecco. Se i suoi l’hanno venduto, ora ella non c’entra più[2].

Marcone. Non c’entra, perchè il ricco mangia il povero; per altro ci dovrebbe entrare.

Mengone. Basta, Rosaura sta in casa con Pantalone; sono genti che non hanno che far con noi. Hanno da compatire le nostre donne.

Nardo. Non occorr’altro. Signori deputati, signori sindaci, così faremo.

Cecco. Se non v’è altro da dire, io me ne anderò alla caccia.

Mengone. E io anderò a far misurare il mio grano[3].

  1. Bett. e Pap.: loro due.
  2. Bett. e Pap.: cosa c’entra lei?
  3. Bett. e Pap.: misurar certo grano.
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