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426 ATTO PRIMO

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Ottavio. Se maritandomi credessi di dover ritornare ad essere figlio di famiglia, vorrei lacerare il contratto.

Florindo. Ed io, se credessi di rovinar mia sorella con un giocatore ostinato, vorrei domani partir di Venezia, e ricondurla a Livorno.

Ottavio. Conducetela dove volete. Due al resto di venti ducati.

Florindo. Non avete parlato ad un sordo.

Martino. Do al resto de vinti ducati. La diga, paron, che monede zoghemio?

Ottavio. Sono un uomo d’onore. Son conosciuto. Se vincerete, vi pagherò.

Florindo. (Se torna da me per aver denari, non gliene do più certamente). (da sè)

Martino. Do. Voggio vinti ducati. (mescola le carte)

Ottavio. Per pietà, Florindo, andate via.

Florindo. Questo è casino pubblico. Voi non avete autorità da scacciarmi.

Ottavio. Non vi discaccio. Vi prego non mi dar soggezione.

Florindo. Vergognatevi. (s’alza, e parte)

Ottavio. Al due alla pace.

Martino. Do a far pace. (taglia)

SCENA II.

Pantalone e detti.

Pantalone. Schiavo, patroni.

Martino. Schiavo, sior Pantalon.

Pantalone. Compare Martin, sioria vostra. Come vala?

Martino. La sticchemo[1].

Ottavio. Si giuoca, o non si giuoca? (a Martino)

Martino. Do alla pace. Son con ela; no la se scalda, patron.

Pantalone. Va un ponto.

Martino. Va quel che volè.

  1. V. vol. II, 436, b. È anche termine di giuoco: v. Boerio, Dizion.
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