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256 ATTO QUARTO

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Giacinto. Io temer? di che cosa?

Cavaliere.   Un uom del suo talento,
Un uom del suo coraggio, non sa che sia spavento.
Quel che lo rende umano, quel che avvilir lo puote,
È un occhio vezzosetto, bei labbri e belle gote.
Egli per voi sospira: mirate in quel sembiante
Ercole mansueto alla sua Jole innante.
Giacinto. Ah sì, poichè voi siete Venere di bellezza.
Un Marte valoroso vi venera e vi apprezza.
Cavaliere. È tanto è innamorato del volto peregrino,
Che per piacervi ancora diventeria[1] Martino.
Giacinto. Questi scherzi non soffro.
Cavaliere.   Dunque parliam davvero.
Il vostro cor, signora, svelategli sincero.
Giacinto. Porgetemi la destra.
Contessa.   È troppo presto ancora.
Giacinto. Dite almen, se mi amate.
Cavaliere.   Via ditelo, signora.
Contessa. Sono di cuor sincero, e fingere non so.
Giacinto. Dunque un sì pronunciate.
Contessa.   Dunque vi dico un no.
Giacinto. Come! A me questo torto! Un no sì chiaro e tondo?
Ah, ch’io son per lo sdegno acceso e furibondo.
Voi m’ingannaste adunque nel lusingarmi audace;
(al Cavaliere)
Una simile ingiuria non vuò soffrire in pace.
Dove sono gli armati? Tornino in questo loco.
Ah, son fuor di me stesso; armi, vendetta e fuoco.
Cavaliere. Acqua, presto dell’acqua.
Giacinto.   Non vengono gl’indegni?
Ah, saprò da me stesso adoperar gli sdegni.
O porgami la mano la donna a suo dispetto,
O ch’io con questa spada saprò passarle il petto.

  1. Così Guibert-Orgeas, Zatta e altri. L’ed. Pitteri stampa: diveniria.
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