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I MORBINOSI 401

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Giacometto. Quele quatro moleche no gierele perfete?

Andreetta. I s’ha desmentegà de taggiarghe le ongiete.
Felippo. Boni quei colombini.
Andreetta.   Boni per la stagion.
Giacometto. E quel salà co l’aggio mo no gierelo bon?
Felippo. La torta veramente giera assae delicata.
Giacometto. No cavavela el cuor quela bela salata?
Felippo. E sto deser? dasseno, no se pol far de più.
Lelio. Lo chiamate deser?
Felippo.   Tasè là, caro vu.
Se sa che in cento e vinti qualcun s’ha da doler.
Ma sta cossa, per dirla, la me dà despiaser.
Dei disnar[1] in diversi anca mi ghe n’ho fato;
Ma no son mai sta meggio a spender un ducato.
Ottavio. Conviene compatirlo. A Lelio non dispiace
La tavola che ha avuta; anzi se ne compiace.
Ma il desinar gli sembra che meriti assai manco,
Perchè non gli si è data una signora al fianco.
Felippo. Sior sì, per oto lire, co sta bela grazieta,
L’averave volesto anca la so doneta.
Andreetta. Amici, gh’aveu gnente che ve avanza de bon?
Mandè qua, mandè qua, che gh’ho el tira busson[2].
Porto sempre con mi le mie arme in scarsela.
De qua quela botiglia. Rosolin de canela.
Giacometto. Xelo del calzeniga?
Andreetta.   Adesso el sentiremo.
Felippo. Anca mi un gottesin.
Andreetta.   Sì, se lo spartiremo.
Ottavio. Lasciate che lo senta.
Lelio.   Ed io sono bastardo?
Andreetta. E viva i cento e vinti.
Giacometto.   E viva sior Lunardo.
(tutti bevono il rosolino)

  1. Forse è sbaglio di stampa, per disnari.
  2. Cavaturaccioli: VII, 441.
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