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E a conto della parte, che un di potrà toccarmi,

Otto o dieci zecchini vi prego anticiparmi.
Carluccio. Qual è la prima donna, che pensasi d’avere?
Pasqualino. Il capo a suo talento la potrà provvedere.
Posso sperar la grazia che ora vi ho domandata?
Carluccio. So che una virtuosa al Gambero è alloggiata.
Vo’ che andiamo a sentirla.
Pasqualino.   Rispondetemi a tuono.
Siete capo, o non siete?
Carluccio.   Io son quello che sono.
Un musico mio pari non degna framischiarsi
Con que’ che onorerebbe, se osasse di abbassarsi.[1]
Io tengo il mio danaio sui banchi principali;
Ne vuò per un’impresa scemare i capitali.
Voi cantar siete soliti per l’oro e per l’argento.
Io canto quando voglio per mio divertimento.
(parte)
Pasqualino. Chi non lo conoscesse il povero sguaiato?
Credo ch’ei mi prevalga nell’essere spiantato:
E so ch’egli vorrebbe l’onor di comandare,
Alfin d’esser il solo la cassa a maneggiare.
Oggi chi ha di cantare voglia o necessità,
Costretto è per il solito d’unirsi in società;
E spesso la fortuna poco ai teatri amica,
Fa che si perda invano il tempo e la fatica.
Siam troppi, e quel ch’è peggio, i buoni non son tanti,
E il gusto si raffina, e calano i contanti.
E quando non recluta Lisbona o l’Alemagna,
Pel ballo e per la musica finita è la cuccagna.
(parte)

  1. Questo secondo verso del distico leggesi nell’ed. Antonelli di Venezia (1831), probabilmente aggiunto dal correttore; manca, per difetto di stampa, nelle edizioni del Settecento.
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