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158 ATTO TERZO

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Vittoria. Tanto più mi mette in sospetto. Basta, da qui a sera c’è poco. Sentirò che cosa m’ha da dire Leonardo. Taccio, taccio; ma se mi fanno parlare, s’hanno da sentire di quelle cose che non si sono mai più sentite. (parte)

SCENA X.

Campagna con bottega di caffè e qualche casa. Due o tre panche per comodo di quelli che vanno al caffè, situate bene.

Tita e Beltrame, garzoni del caffè.

Beltrame. Tita, come stai d’appetito?

Tita. Oh! bene. Non veggio l’ora d’andar a cena.

Beltrame. Questa mattina dal signor Filippo ci credevamo di fare un gran pasto, e non c’era da cavarsi la fame.

Tita. Venivano via i piatti di tavola netti netti, che non c’erano appena l’ossa.

Beltrame. E di quel poco che è avanzato, che cosa ha toccato a noi?

Tita. Niente. S’hanno portato via tutto. Il castaldo, la castalda, la giardiniera, la lavandaia, i famigli, tutti hanno voluto la parte loro.

Beltrame. S’intende che ci abbiano fatto un regalo grande a farci la minestra a posta.

Tita. Ma che minestra! Pareva fatta nelle lavature de’ piatti.

Beltrame. Vino pessimo.

Tita. Di quello che si può dar da bere ai feriti.

Beltrame. Ci fosse stato almeno del pane.

Tita. Bisognava, chi voleva del pane, domandarlo per elemosina[1].

Beltrame. Io mi sono attaccato ad un buon pezzo di manzo, che per verità era tenero come il latte.

Tita. Ed io ho adocchiato un cossame di cappone, a cui vi era per accidente un’ala intiera attaccata, e me l’ho pappolata in due colpi.

  1. Ed. Zatta: limosina.
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