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464 ATTO TERZO

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Tonina. No, da donna onorata che no saveva gnente, e che no so gnente.

Lissandro. Mi resto incantà, e stimo che no se vede sior Gasparo.

Raimondo. (Passeggia sbuffando) Che l’am perdona, sgnora Tonina. (passeggiando)

Tonina. Coss’è? sior Raimondo, la gh’alo con mi?

Raimondo. L’è veira che mi cugnà m’ha fatt jersira l’istessa soverchierì, ma lì[lower-alpha 1], l’am perdona, an la credeva capaz.

Tonina. M’intendelo che no so gnente? Credelo che sia una donna onorata? (a Raimondo)

Raimondo. Catterina.

Cattina. Sior. (mortificata)

Raimondo. Andem[lower-alpha 2].

Cecilia. Eh no, sior Raimondo, za che ghe semo...

Tonina. L’aspetta un momento. La lassa che sappiemo almanco... (a Raimondo)

Gasparo. (Da sè in un canto, e ride.)

Tonina. Sior Lissandro. (accostandosi a lui)

Lissandro. Siora.

Tonina. Coss’èlo sto negozio? (con calore)

Lissandro. A mi la mel[1] domanda?

Tonina. Ghe scometteria la testa... (a Lissandro)

Lissandro. Oh la la perderia. (a Tonina)

Tonina. Vorave ben saver chi ghe xe in casa mia. (Fa dalle maschere ad una ad una domandando piano. Le maschere con civiltà la salutano, e fanno cenno che non sanno niente; intanto Lissandro e Cecilia parlano come segue, e Raimondo passeggia.)

Lissandro. La diga, siora Cecilia, xela una bella figura che la me fa far, a star qua cussì come un matto?

Cecilia. Voressi el vostro cappello.

Lissandro. Se ghe par che cussì staga ben.

Cecilia. Deme el tabarro e la bauta, e mi ve darò el cappello.

  1. Ella.
  2. Andiamo.
  1. Così l’ed. Zatta. Cameroni. l. c., corregge: la me ecc. Meglio, in veneziano; la me lo ecc.
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