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542 ATTO QUINTO

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Via; svelatelo a me. L’ultimo dono

Questo è che chiede un infelice amante.
Matilde. Ah v’intendo, crudele. A voi non basta
Il cor che mi rapiste, e quella vita
Ch’io vo perdendo; la mia gloria ancora
Mi volete involar prima ch’io mora.
Sì, trionfatene pur; dirlo m’è forza:
V’amo ancora pur troppo. Ah con qual zelo
Custodia quest’arcano! e voi, crudele,
Mei strappaste di bocca. Io v’amo ancora;
Vel confermo, o signor, ma non sperate
Un sospir, uno sguardo, un atto solo,
Che vi parli d’amor. Nè men sperate
Di vedermi mai più. Sì, da Palermo
Partirò col mio sposo; allor per sempre
Seperati e lontani... (Ah che nel dirlo
Mi si stacca dal sen l’alma dolente!)
Enrico. Partirete voi dunque, ed io per sempre
Vi perderò?
Matilde.   Così il destino impone.
Enrico. Deh soffritemi ancor per un istante,
Giacchè l’ultima volta è ch’io vi parlo.
Ditemi: con qual gioia incontrareste[1]
Il piacer d’esser mia?
Matilde.   Deh più non dite,
Che mi fate morir. Veggo pur troppo
Che rimedio non v’è...
Enrico.   Non v’è rimedio?
Ah Matilde, non è diffidi tanto
Questa sorte per noi.
Matilde.   Ma questa, Enrico,
È troppa crudeltà! Sognar lusinghe
Per sedur il mio cuore, è un abusarvi
Della mia sofferenza.

  1. Così il testo.
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