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98 ATTO QUINTO

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Vorrian trarlo di là;[1] ma so ben io

La cagion del lor zelo. Hanno timore
D’esser sorpresi dai nemici; e in vero
Ora di gente armata è il suol ripieno.
Rinvenuto Anastasio, in cauto sito
Condurrollo io stesso.
Eufemia.   E che dobbiamo
Oggi temer?
Ergasto.   Se deggio dirti il vero,
Spero più che temer.
Arianna.   Ma in che mai speri?
Ergasto. Nella virtù del mio Giustino. Ancora
Mio lo chiamo, benché sua regali stirpe
Pubblica or sia.
Eufemia.   Come! Pastor, che dici?
Ergasto. Tempo or non ho... Tutto saprete in breve;
Torno ad Augusto. Io n’ho pietà, quantunque
Crudel sia stato al mio Giustino, e ingrato.
Venni per accertarvi, ch’io perire
Nol [2] lascierò, che non temete.
Arianna.   I Dei
T’abbian quella pietà, che di lui senti.
Ma conviene agli Dei serbar rispetto,
Venerarli, temerli [3]. Avea scordato
Anastasio, cred’io, d’esser mortale.
Credea che in suo poter stesse[4] la vita
E la morte d’altrui. De’ suoi soggetti
Arbitro si credea. Misero! Il prova
Che s’ingannò. Son degli Dei ministri
I terreni monarchi, e non son Dei. parte

  1. Nel ms. c’è il punto fermo.
  2. Così il ms.; nell’ed. Zatta è stampato: non.
  3. Ms.: Venerarli e temerli.
  4. Così nel ms.; nell’ed. Zatta è stampato: stesse.
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