Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
128 | ATTO PRIMO |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Goldoni - Opere complete, Venezia 1927, XXIV.djvu{{padleft:132|3|0]]
Come favelli? Hai d’oppio la dose caricata?
Alì. Sì, amico, doppia dose per voi ne ho trangugiata:
Per voi, che pur vorrei colla letizia mia
Scuotere[1] da cotesta letal malinconia.
L’oppio, quel succo [2] amaro, ch’è agli Europei veleno,
Di cui nell’Asia nostra s’empion le genti il seno,
Gioia mi desta in petto inusitata e strana.
Tamas, gioite meco.
Tamas. Ogni tua cura è vana:
Gioir non mi farebbe nè scettro, nè corona;
Vedi se potrà farlo un ebrio che ragiona.
Alì. Ebrio son io, nol niego, pel sonnifero amaro,
Non pel vietato vino, dolce al palato, e caro;
E pur ve lo confido, in quattro jer di sera
Un orcio ne bevemmo nella caravanzera [G 1].
Tamas. Cosa tu mi confidi da me con sdegno udita;
Vino non bevvi mai pel corso di mia vita.
Ciò che il pubblico offende, per ragion del divieto,
Dee l’anime bennate offendere in segreto.
E dove non arriva la forza di chi regge,
Vincola nei recessi dell’onestà la legge.
Alì. Sì, giovine bennato, alma di virtù piena,
Alma ch’esser tranquilla dovrebbe, e più serena;
Poiché se un giovin pio ripieno ha il cor di doglie,
Chi fia che ad imitarlo [3] nella bontà s’invoglie?
Tamas. In te cresce de’ spirti l’alterazion funesta;
Per tai ragionamenti ora importuna è questa.
Lasciami, te ne priego [4].
Alì. Io non vi lascio al certo,
Se il duol che avete in seno, non mi mostrate aperto[5];
- ↑ Albergo pubblico in Persia, a somiglianza delle osterie nostre, differenti però nell’uso.