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246 ATTO PRIMO

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Ma finalmente il veggo toccar vicino al vischio;

Metto un ginocchio a terra, formo più dolce il fischio;
Fo giocolar[1] col filo della civetta il rostro.
Ah l’usignuol s’impannia, ecco, l’augello è nostro.
Oimè, mancami ancora nel rammentarlo il fiato;
Dirvi il piacer non posso, che ho nel cuor mio provato.
Corro a staccar dal visco la cara preda in fretta.
Salto per l’allegrezza, bacio la mia civetta.
Al padre, ai cari amici, a tutti io ne ragiono:
Ecco l’augel che ho preso. Signora, io ve lo dono.
Zilia. Come il garzon dipinge il ver coi detti sui!
Scorgesi la natura, e l’innocenza in lui.
Celuna. Zilia, il german sen viene.
Zilia.   Sua dolce compagnia
Sempre mi sarà cara.
Pasquino.   Signora, io vado via.
Viene il padron.
Zilia.   Sì, caro, ti sarò grata, aspetta.
Prenditi quest’argento. (gli dà una moneta
Pasquino.   Comprerò una civetta.
Io son l’uccellatore, e in avvenir, tant’è,
Chi vorrà gli uccellini, dovrà venir da me. parte

SCENA VIII.

Zilia e Madama Cellina.

Zilia. Che fa, ch’egli non viene? Andiamo ad incontrarlo.

Celuna. No, amica; se v’aggrada, qui potete aspettarlo.
Io andrò da mio marito per dirgli una parola.
Zilia. Fate quel che vi aggrada.
Cellina.   (Meglio è lasciarla sola.
Può darsi che per lui amore il cuor le tocchi,
Con uno che l’adora trovandosi a quattr’occhi).
(da sé, e parte

  1. Ed. Pitteri: gioccolar.
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