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484 I Nibelunghi

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Alcun prezzo,[1] e d’altera alma pur anco
270Erano tutti i servi suoi. Si stava
Hàgene ancora ancor di qua da l’onde.
  Con forza egli gridò, sì che all’intorno
Risuonavane il guado, e grande assai
E possente era inver forza del prode:
  275Me, me Almerico, prendimi, ch’io sono
L’uom d’Èlse, qual fuggìa da questa terra
Per grande odio che v’ebbe! — Alto un monile
A sommo de la spada ei gli offerìa,
Fulgido e bello e d’oro splendïente,
280Perchè quei di Gelpfràt alle contrade
Cosi ’l passasse. In fra le mani il remo
Prendeasi l’oltraggioso navalestro,
Ei stesso, ei stesso. Ma riottosa ed aspra
La sua natura, e gli diè trista fine
285Di gran mercè la cupidigia. Ei volle
D’Hàgene il fulgid’or lucrarsi ratto,
E dall’eroe tristissima di spada

  1. Nel senso che non voleva passar nessuno, e perciò nulla prendeva.
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