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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|I promessi sposi (1840).djvu{{padleft:778|3|0]]anche la sua esperienza, chiama però bestiali que’ giudici che ne inventan di nuovi.[1]

Furono quegli scrittori, è vero, che misero in campo la questione del numero delle volte che lo spasimo potesse esser ripetuto; ma (e avremo occasion di vederlo) per impor limiti e condizioni all’arbitrio, profittando dell’indeterminate e ambigue indicazioni che ne somministrava il diritto romano.

Furon essi, è vero, che trattaron del tempo che potesse durar lo spasimo; ma non per altro che per imporre, anche in questo, qualche misura all’instancabile crudeltà, che non ne aveva dalla legge, “a certi giudici, non meno ignoranti che iniqui, i quali tormentano un uomo per tre o quattr’ore,” dice il Farinacci[2]; “a certi giudici iniquissimi e scelleratissimi, levati dalla feccia, privi di scienza, di virtù, di ragione, i quali, quand’hanno in loro potere un accusato, forse a torto (forte indebite), non gli parlano che tenendolo al tormento; e se non confessa quel ch’essi vorrebbero, lo lascian lì pendente alla fune, per un giorno, per una notte intera,” aveva detto il Marsigli[3], circa un secolo prima.


  1. Hipp. de Marsiliis, ad Tit. Dig. de quæstionibus; leg. In criminibus, 29.
  2. Praxis, etc. Quæst. XXXVIII, 54.
  3. Pratica causarum criminalium; in verbo: Expedita; 86.
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