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280 parte seconda

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Buddha, Confucio e Lao-Tse.djvu{{padleft:355|3|0]]Quantunque l’investigazione di questi decreti celesti, che ci deve additare la strada che dobbiamo percorrere, se vogliamo essere utili a noi e agli altri, sia raccomandata da’ savii dell’antichità come cosa capitale; questi stessi savii son costretti a confessare, che non di rado i voleri del Thien sono impenetrabili e incomprensibili.[1] Quando l’uomo esce dalla via stabilita da quella suprema volontà, s’intende che le cose per lui debban volgere al peggio; ma questo mutamento di fortuna non sempre si capisce e si spiega, sicchè le celesti volontà sono anche tacciate d’incostanti.[2] Perciò le lamentazioni contro il Cielo non mancano nemmeno nelle scritture sacre della Cina: anzi un’ode dello Shi-king lo chiama addirittura senza pietà e ingiusto, in veder l’Impero caduto in miserie, a cagione del mal governo.[3] Ma, veramente, queste imprecazioni son rare: anzi la stimo unica quella che ho citato, e perdonabile a un poeta; il filosofo non se la piglia mai, come abbiamo visto, col destino; si mantiene imperturbabile, e sopporta in pace anche le avversità. «Se io ho mal fatto, dice Confucio, che il Cielo mi abbandoni»: cioè, non mi aiuti a uniformarmi sempre ai suoi valori (Thien-ming).[4]

Parrebbe naturale che il Thien, il quale esige che ogni cosa e ogni Essere tenda a un fine predestinato, rivelasse chiaramente i suoi augusti voleri; tanto più che l’uomo corre rischio d’attirarsi tutte le infelicità della terra, se non procede pel retto sentiero fissato dagli eterni decreti. Così almeno hanno fatto altre divinità; le quali


  1. Shih-king, ii, iv, ix, 8.
  2. Shih-king, iii, i, i, 5.
  3. Shih-king, ii, iv, viii.
  4. Lun-yü, ix, 11; conf. anche xi, 8.
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