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795Ridir con vaghe ed altre fogge il detto;
Membro che Tullio e Roscio ebber tenzone
A chi più moltiforme riuscia
Un medesimo pensier significando
Con frasi il Dicitor, con gesti il Mimo;
800Che il vate de’ tre regni in guise tante
Ambì di sporre, che Tiresia e Arunte
Nella pena infernal vedeansi il tergo;
E che Ippolito mio gli azzurreggianti
Mutò quindici volte occhi di Palla[1];
805Ma ciò non sempre, che più d’arte acchiude,
Induce più diletto, e cotal vero
La mia pagina stessa ah! non rassodi,
Ove dall’artificio esca la noia.
E tengasi, che nuova intatta voce
810Di quella voce assai più cara torna,
Quantunque ornata di recenti vezzi,
Che alle lusinghe d’un primiero amante
Concesse il bello virginal suo fiore.
  Nè sol non difettate e nuove, acconce,
815Massime se ad un circolo proposte,
Le sciarade io vorrei; tenero motto,
Che rimembri d’amor gioie e tormenti,
Male s’accoglieria dove i tarocchi
Stanno attendendo cavalieri santi,
820Che, i presciti mustacchi abbominando,
Serban, reliquia del novantanove,
La bella ancor predestinata coda;
O rigide matrone, che, nel fosco
Mattutino zendado imbavagliate,
825Sole per umiltà, l’ebdomadario
Devoto biscottin portano agli egri;
O cappe o toghe, che zelando vanno,
Coi polmoni non men che colle braccia,
La legittimità delle Corone.

  1. Nel tradurre l’Odissea.
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