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Il Vinci:
«Il giglio si pose sopra la ripa di Tesino, e la corrente tirò la ripa insieme col giglio». La furia della vita travolge il delicato fiore: vittima della sua imprudenza, della superbia, della curiosità, dell’amore, di quale, insomma tra le mille passioni?
Forse nessuna delle favole vinciane è poetica come questa, che ci piace pensare, per l’accenno ch’Egli stesso ci dà, imaginata lungo le belle rive boscose del Ticino, presso Pavia, in una delle sue meditabonde passeggiate solitarie. Forse, studiando i movimenti dell’onda scrosciante torbida per le piogge recenti, interruppe l’osservazione scientifica per seguire, con un sospiro di melanconia? con un ironico sorriso? il fiore travolto nei gorghi veloci.
Quelle che il Solmi intitolò Facezie (novelluzze di motti spiritosi sul fare di certune del Sacchetti), sono certo una raccoltina di cose udite, alcune delle quali molto comuni, altre abbastanza grossolane.[1]
Dove il racconto si distende un po’ più, come in quella del frate e del mercantuolo, o del pittore e del prete, abbiamo modo di cogliere la prosa del Vinci in un atteggiamento affatto familiare, semplice, dimesso, diverso molto dagli altri fin qui osservati. Nessuna cura artificiosa degli aggettivi che
- ↑ Una di queste, intitolata dal Solmi (Frammenti, p. 394), Facezia di un prete, trovo precisa nelle Facezie, motti e burle di diverse persone di L. Domenichi, Venezia, Giorgio de’ Cavalli, 1565, pag. 24. Il racconto vinciano, però, ha ben maggiore finezza artistica.