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104 capitolo undicesimo

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sciva stonato, o per lo meno enimmatico; e specialmente trovava troppa pompa rispetto alla semplicità di casi comuni, troppe metafore e prodigiosità rispetto alla genuinità dei caratteri. Così, meditando e sottilizzando irrequieto, sedeva in teatro e confessava a sé stesso, egli, lo spettatore, di non capire i suoi grandi predecessori. Ma se per lui il comprendere significava la vera e propria radice di ogni godimento e di ogni creazione, doveva pure domandarsi e guardarsi intorno, se non c’era qualche altro che pensava come lui e come lui parimente conveniva intorno a quella incommensurabilità degli antichi tragici. Ma i molti, e coi molti anche i migliori a uno a uno, ebbero per lui non più che un sorriso diffidente; e nessuno seppe spiegargli il perché i suoi dubbi e appunti levati sui grandi maestri potessero avere un fondamento. In tale penosa situazione si abbatté nel secondo spettatore, che non capiva la tragedia e perciò non l’apprezzava. Unito in lega con questo, egli potè arrischiarsi di uscire dalla solitudine e imprendere, la lotta prodigiosa contro i capolavori di Eschilo e di Sofocle; e non già con scritti polemici, ma da poeta drammatico, che alla concezione tradizionale della tragedia contrapponeva la sua.

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