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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Novelle lombarde.djvu{{padleft:67|3|0]]rati, che a dirne male mentr’era forte avrebber creduto offendere Dio, tiravano giù a refe doppio ora che Dio l’aveva raggiunto: quei che più lo avevano piaggiato potente, più sfoggiavano la bravura del vile insultandolo caduto; scene non nuove a chi si ricorda di vent’anni fa. I più dabbene gli recitavano dei suffragi; ed il signor vicario, ch’era pur dovuto accorrere se mai fosse bisogno del suo ministero, esclamava — Intendete, figliuoli? imparate. Vidi impium superexaltatum et elevatimi super cedros Libani: transivi, et ecce non erat[1].

Il popolo non capì niente; pure dissero con suffragio universale: — Ha ragione; questo si chiama un parlare! Già è un pezzo che la bolliva. L’ho sempre detto anch’io che finirebbe così».

Ma la calca fattasi intorno ritardava don Alessandro, cui le ultime parole del moribondo avevano messo pensate di che cuore. L’ansietà d’un contadino, quando in agosto invocò un pezzo e un pezzo la pioggia sull’inaridita campagna, e che vede finalmente sorgere delle nubi, ma insieme farsi un tempaccio cupo, un cielo nero, con certi lampi lunghi, continui, certo brontolar sordo del tuono, onde tremante aspetta se sarà acqua che ristori o grandine che finisca di desolare, è uno scarso confronto con quella di don Alessandro. Si trattava di sapere se vivesse ancora una madre, cui tant’anni egli avea pianta per morta; se quello dev’essere il giorno più bello di sua vita, o se andasse a discoprire chi sa qual tremendo arcano, che inconsolabil-

  1. Vidi l’empio inalzato e sublimato più che i cedri del Libano; ripassai, ed ecco più non v’era.
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