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novella vii. 237

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VII.

Allegoria sull’Amicizia.


Un ricco mercatante avea un figliuolo unico, da lui sopra ogni cosa affettuosamente amato; onde lo fece allevare con grandissima cura, e ogni cosa adoperò per fornirgli di bei sentimenti l’animo, e di cognizioni l’ingegno. Essendo l’educazione di lui quasi pervenuta al fine, stabilì di farnelo viaggiare; ed avutolo a sè, gli disse un giorno così: Figliuol mio, sappi che fra gl’infiniti bisogni della vita, il maggiore di tutti gli altri è quello di un buon amico. Il troppo largo spendere ci porta via le ricchezze; un’improvvisa contrarietà di fortuna abbatte, a un vedere e non vedere, i più potenti; ma la morte sola ci può togliere un buon amico, come toglie a noi stessi; questo è quel solo bene che da autorità umana veruna non ci può essere rapito[1]: trova un amico solo in tutto il corso della vita, e avrai ritrovato il principalissimo ed ottimo di tutt’i beni. Io vorrei, figliuol mio, che tu vedessi il mondo: i viaggi sono la sperienza vera; quanto più uno avrà veduto degli uomini, saprà meglio vivere fra loro. Il mondo è un gran libro che ammaestra colui che sa leggere; è specchio fedele che ci presenta tutti quegli oggetti che, scoperti e ben conosciuti, possono insegnarci. Figliuol mio, va, che tu sia benedetto, e pensa ne’ tuoi viaggi pel

  1. Questo è un pensiero somigliante a quello di Cicerone nel suo Dialogo dell’Amicizia, cap. 15: «Può fare, dic’egli, maggior pazzia l’uomo ricco ed al caso di procacciarsi tutte le grazie della vita, di quella di cercare tutto quello che può aversi co’ danari, belle terre, begli equipaggi, palagi pomposamente forniti, e non piuttosto pensare a farsi degli umici? Ogni altro acquisto gli può sfuggire di mano e diventar preda del più forte: il solo possedimento degli amici non ci può essere contrastato.»
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