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capitolo decimosettimo | 527 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Opere varie (Manzoni).djvu{{padleft:533|3|0]]ancora supposta viva la guerra dell’inclinazioni del senso? Egli stesso ne parla; egli discende dalle caste e alte visioni del terzo cielo, a mostrarsi nell’arena de’ combattenti carnali: costretto a rivelare il segreto del suo animo, lo rivela tutt’intero per esser tutto conosciuto[1].
Se la modestia è l’umiltà ridotta in pratica, non si può combinare con l’orgoglio, che è il contrario di questa; e non ci sarà alcun giusto orgoglio. L’uomo che si compiace di sè stesso, che non riconosce in sè quella legge delle membra che contrasta alla legge della mente[2], l’uomo che osa promettere a sè stesso, che, per la sua forza sceglierà il bene nell’occasioni difficili, è miserabilmente ingannato e ingiusto; l’uomo che s’antepone agli altri è temerario; è parte, e si fa giudice. Che se, per un giusto orgoglio, s’intende riconoscere la verità del bene che s’è fatto, senza attribuirlo a sè, e senza invanirsene, sarà questo un sentimento legittimo, anzi un sentimento doveroso; ma l’umiltà non l’esclude, ma è l’umiltà stessa, ma la condotta contraria è proscritta dalla morale cattolica come menzognera e superba; poichè chi crede che, facendo un giusto giudizio di sè, avrebbe di che gloriarsi, e che, per poter esser umile, abbia bisogno di contraffarsi, è un povero superbo; ma finalmente bisogna permetterci di chiamare questo sentimento altrimenti che orgoglio; non per cavillare su una parola, ma perchè questa è consacrata a significare un sentimento falso e vizioso in tutti i suoi gradi. E poichè la condotta esterna può essere in molti casi la medesima in chi ha il sentimento dell’umiltà, e in chi non l’ha, importa di conservare il suo senso alla parola che è appunto destinata a specificare il sentimento. L’orgoglio non può dunque esser mai giusto; quindi non può mai essere, nè un sostegno alla debolezza umana, nè una consolazione nell’avversità.
Questi sono frutti dell’umiltà: è essa che ci sostiene contro la nostra debolezza, facendocela conoscere e ricordare ogni momento; l’umiltà che ci porta a vegliare e a pregare Colui che comanda la virtù e che la dà; è essa che ci fa alzar lo sguardo ai monti donde ci viene l’aiuto[3] . E nelle avversità, le consolazioni sono per l’animo umile, che si riconosce degno di soffrire, e prova il senso di gioia che nasce dal consentire alla giustizia. Riandando i suoi falli, le avversità gli appariscono come correzioni d’un Dio che perdonerà, e non come colpi d’una cieca potenza; e cresce in dignità e in purezza, perchè, a ogni dolore sofferto con rassegnazione, sente cancellarsi alcuna delle macchie che lo deformavano. Che più? arriva fino a amare l’avversità stesse, perchè lo rendono conforme all’immagine del Figliuolo di Dio[4]; e in vece di perdersi in vane e deboli querele, rende grazie in circostanze, nelle quali, se fosse abbandonato a sè stesso, non troverebbe che il gemito dell’abbattimento, o il grido della ribellione. Ma l’orgoglio! Quando Iddio avrà umiliato il superbo come un ferito[5], l’orgoglio sarà per lui un balsamo? A cosa può servire l’orgoglio nelle avversità, se non a farle odiare come ingiuste, a suscitare in noi perpetuamente un irrequieto e doloroso paragone tra quello che ci par di meritare e quello che ci tocca soffrire? Il punto di riposo per l’uomo, in questa vita, è nella concordia della sua volontà con la volontà di Dio sopra di lui; e chi n’è più lontano che l’orgoglioso, quando è percosso? L’orgoglio è garrulo nella sventura, quando trovi ascoltatori; s’agita
- ↑ Et ne magnitudo revelationum extollat me, datus est mihi stimulus carnis meæ, angelus Satanæ, qui me colaphizet. Ibid. 7.
- ↑ Video autem aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meæ. Rom. VII, 23.
- ↑ Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi. Ps. CXX, 1.
- ↑ Quos præscivit, et prædestinavit conformes fieri imaginis Filii sui. Ad Rom. VIII, 29.
- ↑ Tu humiliasti, sicut vulneratum, superbum. Ps. LXXXVIII, 11.