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Che non c’innamoreremo mai di una di quelle idee per cui si accetta di morire, è chiaro — vedi l’esperienza fatta.

Che non avremo mai il coraggio di ammazzarci, è chiaro — vedi quante volte l’abbiamo pensato.

[......][1].

26 marzo.

A che cosa ha servito questo lungo amore?

A scoprire tutte le mie tare, a provare la mia tempra e giudicarmi.

Vedo ora il perché del mio isolamento fino al ’34. Sentivo inconsciamente che per me Pamore sarebbe stato questo massacro.

Niente si è salvato. [......]. La coscienza si è spaccata: vedi let tera e tentazione omicida. Il carattere si è piegato: vedi confino. L’illusione dell’ingegno è svanita: vedi lo stupido libro e la mia natura di traduttore. La fermezza dell’uomo comune, persino, è venuta meno: a trent’anni non ho un mestiere.

Sono arrivato al punto di sperare la salvezza dall’esterno, e non c’è oscuramento piú grande: penso ancora che con lei potrei vivere e lottare. Ma di quest’illusione fa giustizia lei stessa: mi ride in faccia e cosí risparmia anche quest’ultima penosa esperienza.

«... Siamo pieni di vizi, di ticchi e di orrori
noi gli uomini, i padri...»

Tutto giusto. Solo che non siamo stati nemmeno padri.

[......][2]. Anche fisicamente, ora non sono piú lo stesso.

Eppure è accaduto a molti che un amore li ha distrutti e ammazzati. Sono forse piú bello perché non debba capitare a me?

La lotta ora non è piú tra il sopravvivere o decidermi al salto. È tra decidermi al salto da solo come sono sempre vissuto, o portare con me una vittima — perché il mondo se ne ricordi.

  1. Omesse venticinque righe [N. d. E.].
  2. Omesse tre righe [N. d. E.].
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