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Tutti i giorni, tutti i giorni, dal mattino alla sera, pensare cosí. Nessuno ci crede: è naturale. È forse questa la mia vera qualità (non l’ingegno; non la bontà, non niente): essere invasato d’un sentimento che non lascia cellula del corpo sana.
È davvero l’ultimo orgoglio: nessuno per nove mesi avrebbe retto a uno strazio simile. Anche lei che parla: un altro — chiunque — a quest’ora l’avrebbe già uccisa.
[......][1].
La cosa segretamente e piú atrocemente temuta, accade sempre.
Da bambino pensavo rabbrividendo alla situazione di un innamorato che vede il suo amore sposarne un altro. Mi esercitavo a questo pensiero. E voilà.
27 marzo.
Una domenica passata a vagolare col pensiero come una mosca legata, tutto intontito corpo ed anima, percorso da brividi di rabbia, o stretto dalla mano di ferro, o blandito da una vagula apprensione di futuro meno atroce.
Osservo che il dolore abbrutisce, intontisce, schiaccia. Ogni tentacolo con cui una volta sentivo, provavo e sfioravo il mondo, è come troncato e incancrenito al moncone. Passo la giornata come chi ha urtato uno spigolo con la rotula interna del ginocchio: tutta la giornata come quell’istante intollerabile. Il dolore è nel petto, che mi sembra sfondato e ancora avido, pulsante di sangue che fugge e non ritorna, come da un’enorme ferita.
Naturalmente, è tutta una fissazione. Dio mio, ma è perché sono solo, e domani avrò una rapida felicità, e poi di nuovo i brividi, la stretta, lo squarcio. Non ho piú fisicamente la forza di star solo. Una volta sola mi è riuscito, ma ora è una ricaduta e, come tutte le ricadute, è mortale.
Eppure a questo stato si aggiunge un’altra sofferenza, come chi,
- ↑ Omesse tredici righe [N. d. E.].