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98 | eugenio anieghin |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu{{padleft:139|3|0]]scerlo. Il padre le soffiava all’orecchio: “Dunia, attenzione!” Quindi un servitore recava una chitarra, e Dunia incominciava a miagolare:
Oh! vieni a me, nel mio palazzo d’oro![1]
Ma Lenschi non voleva ancora lasciarsi impególare alle panie del matrimonio, e niente altro ambiva che contrarre più stretta familiarità con Eugenio. L’onda e il sasso, il verso e la prosa, il ghiaccio e la brace, non son più diversi fra loro di quello che fossero Lenschi e Anieghin; eppure divennero amici sviscerati. A prima giunta, quel reciproco contrasto cagionò qualche urto; ma l’incontrarsi ogni giorno a cavallo o a piedi, fece sì che divennero compagni inseparabili. Così, pur troppo è vero, la scioperatezza è il nodo che ravvicina e unisce gli uomini.
Ma fra noi nemmeno tale legame esiste. Accecati dall’orgoglio, reputiamo noi stessi come tante unità e gli altri come tanti zeri. Tutti ci crediamo nuovi Napoleoni, e consideriamo le migliaia di bipedi nostri simili, come gli istrumenti dei nostri capricci; ogni affetto ci sembra cosa stramba e stolta. Eugenio era più tollerante; conosceva gli uomini e li disprezzava in genere, ma faceva in particolare alcune eccezioni. Ve n’erano alcuni che egli stimava e dei quali rispettava l’opinione. Ascoltava Lenschi con un sorriso; quel linguaggio colorato ed eloquente, quello spirito incerto nei suoi giudizi, quell’occhio sempre lampeggiante d’entusiasmo, erano cose nuove per Anieghin. Si asteneva da ogni parola che potesse
- ↑ Primo verso d’un canto popolare russo.