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eugenio anieghin | 153 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu{{padleft:194|3|0]]e muggisca un abisso. “Io perirò,” essa esclama: “ma perire per suo volere mi è dolce. Io non me ne lagno; perchè mi lagnerei? Egli non può farmi felice.”
Cammina, cammina, istoria mia! Un nuovo personaggio entra in scena. A cinque verste[1] della villa di Lenschi, chiamata Crasnogora, viveva e vive tuttora un certo Zarieschi, già famoso tribuno delle bettole e capo d’una combriccola di barattieri e di furfanti; ora campagnolo semplice, e buono, ottimo padre (benchè celibe), amico fidato, possidente pacifico e galantuomo — tanto è vero che il secolo megliora! — La voce lusinghiera della fama lodava il suo coraggio tremendo. Colla sua pistola egli toccava un asse alla distanza di cinque sagene.[2] Aggiungeremo però, che un giorno in un combattimento, essendo ubriaco come uno svizzero, tombolò da cavallo nella mota, e restò prigioniero dei Francesi; prezioso ostaggio! Emulo d’Attilio Regolo, si sarebbe volentieri rassegnato a una nuova prigionia in Parigi, per poter ancora trangugiare, ogni mattina, da Very,[3] tre bottiglie di vino di Borgogna. Altre volte egli sapeva motteggiar con spirito, trappolare i balordi, e sbalordire i furbi, apertamente o sotto mano. Ma le sue burle non restarono sempre impunite, e anch’egli talvolta si lasciò infinocchiare come un babbione. Sapeva discutere con brio, replicare con sagacità o con melensaggine; sapeva tacere a proposito, e ciarlare a proposito; sapeva inimicare due giovani amici, farli sfidare in duello, e poi riconciliarli affin di pranzare in tre, e quindi disonorarli con qualche ghie-