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eugenio anieghin | 191 |
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“Dio! da lei!... ci andrò; ci andrò.”
E in gran fretta scarabocchia due righe di risposta.
Che gli accade? Che farnetica? Che cosa ribolle in fondo a quella anima indolente ed egoista? La stizza, la vanità, o l’amore supplizio della gioventù?
Anieghin nuovamente conta le ore; nuovamente troppo lunghi gli sembrano i giorni. Battono le dieci; egli esce, vola, entra nel palazzo, e tremante, s’inoltra nel salotto. Trova Taziana sola, e passano alcuni minuti a quattro occhi. Anieghin non può parlare; turbato, smarrito, anelante, risponde appena. Mille idee strambe gli girano per la testa. Non cessa di contemplar Taziana. Essa se ne sta tranquilla e tutta in sè raccolta.
Sopravviene il marito e interrompe quel penoso tête à tête. Egli rammenta ad Eugenio le beffe e le malizie della lóro infanzia, e ne ridono di buon animo. Frattanto gli invitati arrivano. I sali grossolani della malignità mondana condiscono la loro conversazione. Ma intorno alla principessa il discorso è brillante di spirito senza leziosaggine; di quando in quando vi balena un raggio di profondo buon senso; e sempre ne stanno lontane le massime d’eterna verità, le pedanterie, e quelle parole svergognate che inquietano gli orecchi delicati.
Il fiore della nobiltà, i nomoleti della moda; que-
- ↑ può fare altrimenti quando si descrivono i costumi dell’alta società. Mi rincora il pensare che quasi tutti i termini francesi o i gallicismi da me innestati in questa traduzione sono consecrati dall’uso e suonano giornalmente sulle labbra delle persone bennate.