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196 | eugenio anieghin |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu{{padleft:237|3|0]]lida etichetta; dover conversare con voi tranquillamente, e mirarvi con volto sereno!
”Ma ormai, non ho più forza di tenermi a freno. Io son vostro; io m’abbandono al mio destino.”
Nessuna risposta. Scrive un secondo, un terzo biglietto; medesimo silenzio. Va in una soirée.... appena entrato, la incontra.... com’è severa!... Essa non lo guarda, non gli parla, è fredda come il dì dell’Epifania. Eugenio fa di tutto per reprimere la sua indignazione. Le scocca una occhiata investigatrice. Dov’è la timidezza, dov’è la simpatia, dov’è il pianto?... Non ve n’ha più vestigio. Eugenio non anela che ira e vendetta.
Se almeno potesse credere tal condotta suggerita dal timore che il marito o la gente indovinino le conseguenze d’una debolezza momentanea! Ma così non è.... Non v’ha speranza alcuna.
Eugenio esce, maledicendo la sua stolidezza, e poi abbandonandovisi di nuovo fa divorzio colla società. Solo nel suo quieto gabinetto, si ricorda quel tempo in cui una aspra ipocondria lo tartassava persino nel gran mondo, lo ghermiva, lo incarcerava in un cantuccio oscuro e ve lo tenea rinchiuso a chiave. Ricominciò a leggere senza criterio. Lesse Gibbon, Rousseau, Manzoni, Herder,[1] Chamfort,[2] Madama di Stäel, Bichat,[3] Tissot;[4] lesse