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di giovenale 13

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Dispiega, o Musa, ed entra in questo mare.
Ma forse mi direte: «ov’hai l’ingegno
Eguale alla materia? ove la franca
Schiettezza, onde li antichi al cor bollente
Davan libero sfogo in sulle carte?»
«Che forse avrò paura a dire il nome
Di chicchessia?[1] Che importa a me che Muzio
Faccia, sì o no, buon viso ai versi miei?»[2]
― «Tocca un po’ Tigellino;[3] e tu n’andrai,
Infilzato pel gozzo, a far da torcia
Siccome tanti:[4] ed a qual pro? nel mezzo
Di molta sabbia avrai fatto un bel solco».[5]
― «Dunque chi diè l’acquetta a tre suoi zii
Portato andrà su pensili cuscini,
E noi d’un guardo disprezzante appena
Ei degnerà? ― «Quando ti vien di faccia
Premi col dito il labbro: accusatore
È di costui chi dica pur, «gli è desso».
D’Enea la zuffa e del feroce Turno
Ridir potrai senz’odio; a niun fia grave

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  1. Le parole cujus non audeo dicere nomen quasi tutti le riferiscono a simplicitas, e le mettono in bocca dell’interlocutore, interpetrando questo passo così: dove hai tu la franca schiettezza degli antichi, la quale io non oso chiamare col suo vero nome? cioè col nome di libertà. Il Grangeo invece tronca il dialogo dopo Simplicitas, e facendo dire queste parole al poeta, interpreta nel modo, che il traduttore ha seguito; perchè gli è parso più in armonia col carattere risoluto e indipendente di Giovenale, non che col verso che viene immediatamente dopo, e coll’altro che è penultimo della satira; dove il poeta sentiti i gravi rischi e il nessun frutto del nominare i viventi, si risolve di non isferzare che i morti.
  2. Muzio e Lupo furono aspramente satireggiati da Lucilio, come ci fa sapere Persio, Sat. I
  3. Tigellino fu l’occhio destro di Nerone, e complice delle sue infamie e dissolutezze.
  4. Uno dei molti supplizi inventati dalla tirannia imperiale, e da Nerone usato contro i Cristiani, fu questo. Indossavasi ai condannati una cappa spalmata di zolfo o bitume, e attaccatili per il mento a un gancio, s’incendiavano per far lume la notte. Questo supplizio è ricordato dal Nostro anche nella Sat. viii. v. 235.
  5. Leggo coll’Hermann e coll’Jahn deducis arena, e non diducis; e credo che il poeta con questo modo proverbiale abbia voluto dire che nominando a vitupero Tigellino si correva grave e inutile pericolo. — Veggasi la stessa frase nel medesimo senso nella Sat. vii. v. 48.
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