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di giovenale 27

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Perora ignudo: è la pazzìa men turpe.[1]
Oh sì! che in cotest’abito t’avrebbe
Udito promulgar leggi e diritti
Quel popol vincitor grondante ancora
D’aspre ferite, e quell’alpestre volgo
Tornato or or da maneggiar l’aratro!
Che non diresti tu, se in tale arnese
Un giudice vedessi? E non disdice
Perfino a un testimon così sottile
Abbigliamento? In questa foggia, o Cretico,
Traluci quell’indomito e feroce
Mastro di libertà, che tutti sanno.
Le pratiche t’han dato questa tigna;
E a molti la daran, come di pecore
O di porci in un branco un sol comunica
A tutti gli altri la scabbia e la forfora;
E basta un chicco per guastare un grappolo.
Da questa moda a più brutte faccende
Adagio adagio passerai: la scala
Dei vizi non discendesi d’un salto.
In breve ti faranno uno dei loro
Quelli che in casa cingonsi la fronte

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  1. Seneca, parlando di queste vesti licenziose, dice: Si modo vestes vocandae sunt. in quibus nihil est, quo defendi corpus aut denique pudor possit. De Ben. lib. 7.
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