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44 | satire |
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O Quiriti; sebben maggior lordura
Anco vi sia di questa feccia Achèa.
Già da un pezzo nel Tebro il sirio Oronte
Si scaricò, portandovi la lingua
E gli usi, e i flautisti, e le ricurve
Cetre, non men che i timpani natii,
E le putte che fan di sè mercato
Presso del circo. Ite colà voi tutti
Che andate pazzi per le forestiere
Lupatte[1] dalla mitra variopinta.
I tuoi rustici figli, o gran Quirino,
Si vestono alla greca;[2] e degli atleti
Portan l’insegne vittoriose al collo,
Unti di cera e d’olio. All’Esquilino
E al colle che dai vimini si noma
Corron in frotta i Greci; abbandonando,
Questi, Sicion l’alpestre; Amidon, quegli;
Un altro, Tralle od Alabanda ; un altro,[3]
O Andro o Samo: e nelle gran famiglie
Si ficcano costoro; e in breve tempo
Ne diventano l’anima e i padroni.
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- ↑ I Romani chiamavano lupae le femmine da conio, che dipendevano da un lenone. Portavano in capo una mitra di più colori.
- ↑ Il latino dice: rusticus ille tuus sumit trechedipna da τρεχω curro e δειπνον coena, che era una veste di gala che i Greci indossavano quando recavansi a pranzo fuori. Io traduco: si vestono alla greca; perchè e il contesto e il vocabolo greco, preferito dal poeta, mostrano ch’egli ha qui specialmente voluto appuntare nei Romani la mania di vestire seconda l’usanza greca. E in questa opinione mi conferma anche l’altro vocabolo greco usato dal Nostro nel verso seguente: niciteria νικητήριον praemium victoriae, che era una piccola piastra o collana, che portavano al collo gli atleti vincitori; e che dava loro il diritto alle sportole imperiali.
- ↑ Tutte città della Grecia o dell’Asia minore.