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di giovenale | 51 |
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Povertà che d’esporre alla berlina
Gli uomini. «Via», si grida, «e dai cuscini
Dei cavalieri s’alzi, se ha pudore,
Chi non possiede il censo che la legge
Richiede;[1] e qui s’accomodino i figli
Del treccone cresciuti nel bordello:
Qui, tra i giovani eredi ed eleganti
Di gladiatori e schermitori, applauda
D’un banditor, che luccica, il rampollo».
Tal frutto diè la vanità d’Ottone[2]
Che ci distinse in classi. E quando mai
Per genero si volle uno che il censo
Non pareggi del suocero, e il corredo
Della fanciulla? Ereditò giammai
Un poveretto? o dagli Edili forse
È chiamato a consiglio? Avria dovuto
L’antica plebe dei Quiriti in massa
Fuggirsene lontano. Ovunque al merto,
Cui povertà fa ostacolo, riesce
Difficilmente di salire a galla,
Ma in Roma è quasi disperata impresa.
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- ↑ I primi quattordici gradini dei teatri erano riservati ai cavalieri, o a quelli che n’avevano il censo, che era di 400,000 sesterzi di rendita. Un articolo della legge diceva che giammai un gladiatore o un maestro d’arme non avrebbero occupato uno di quei posti. Ma le leggi, diceva bene quel savio, son fatte soltanto pei poveri; e sono come le tele di ragno, dove le mosche restano impigliate, e le aquile vi passano attraverso come nulla fosse.
- ↑ Non l’imperatore di questo nome, ma L. Roscio Ottone tribuno della plebe, che l’anno di Roma 685 fece passare una legge, per cui ad ogni ceto di persone era assegnato il suo posto nel gran teatro. Vell. Paterc. lib. 2.