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prefazione li

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Nè debbono le Satire di Giovenale aversi in gran pregio soltanto come capolavori di poesia: ma forse non meno come fonti autorevoli di quel tratto di storia che va da Tiberio alla fine del regno di Adriano. Tacito, storico del tempo e uomo di Stato, racconta le vergogne dei governi e degli uomini pubblici; Giovenale, poeta e moralista, senza tacere di quelli, fa più minutamente la cronaca dei costumi privati di Roma: e in ciò il suo libro acquista tanto maggiore importanza, quanto più i Comici latini, troppo servili imitatori del teatro greco, non ebbero pensiero di ritrarre la vita e i costumi della società romana. Egli ci trasporta in mezzo all’andirivieni di quelle vie, dove il brusìo della folla, il rumore dei carriaggi, e i sagrati dei vetturali levano di cervello; per lo che i miseri malati muojono, non potendo riposare: e un povero diavolo che abbia bisogno di passare per là, ora risica di restare sotto un carro, che ribalti; ora si sente arrivare una gomitata nei fianchi, o il cozzo di un’asse nella testa; ora un soldato lo pesta, e gli ficca nelle dita le bullette.[1] Ci fa assistere nell’atrio dei grandi alla distribuzione delle sportole, dove vediamo accorrere alla rinfusa poveri e ricchi, magistrati e bottegaj; chi a piedi, chi in lettiga: e taluno per averne due parti si strascica dietro la moglie grossa colla

  1. Sat. III, 232 segg.
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